Ni-hao ti-zao.. XIII arrondissement


Per raggiungere il quartiere cinese da casa mia bisogna prendere la linea numero cinque, ossia quella contraddistinta dal colore arancione con direzione Place d’Italie. Sono esattamente quindici fermate che attraversano per il lungo Parigi. Da Nord a Sud, da Bobigny a piazza d’Italia, passando per Bastille e République.

Usciti dalla metropolitana s’imbocca l’Avenue d’Ivry, situata a qualche centinaia di metri da place d’Italie. Le insegne cominciano a cambiare, nel colore e nei caratteri. I negozi ed i ristoranti internazionali lasciano il posto, gradualmente ma irreversibilmente, ai cugini asiatici. In un misto di piatti e odori, si percorre la via. La Rue d’Ivry è un lungo viale alberato, dove spuntano luci di negozi vari. Si è accompagnati da un sempre maggior numero di persone asiatiche. Quello che più mi colpisce è il numero di coppie miste che passeggia per il viale ed incrocia il mio cammino. Si sente un unione di culture e  d’amori. Nel quartiere, erroneamente soprannominato cinese, poiché vi si possono trovare tantissime comunità, tra le quali prospera quella cinese. Appena si supera le Lotus, ristorante vietnamita, una fila di ristoranti, più o meno curati nell aspetto, si susseguono. Molti sono mere rappresentazioni di un mondo perduto, rimasto idealizzato solo nelle menti occidentali, altri, invece, più caserecci, richiamano molti curiosi o semplici abitanti del quartiere.

Alcuni come L empire des thes, Laos, tan lido, pho mui, sembrano voler esprimere e trasmettere, a tutti i costi, delle sensazioni, dei profumi, dei colori tipici dell’Asia, scordando che tra un negozio e l altro c’è sempre una boulangerie che, con la sua presenta, testimonia la presenza francese in terra « straniera ». Questo quartiere non rispecchia il grigiore e la chiusura della china town milanese. A Milano, non si entra a contatto con la comunità cinese, bensì, si entra a contatto con gli oggetti che i cinesi fabbricano, con i vestiti che i cinesi vendono, con i piatti che i cinesi cucinano. Si entra in contatto con tutto ciò che può essere materiale ma non si entra mai in contatto con uno sguardo cinese, non si riesce a fare una conversazione con un cinese, se non quando ci si reca dal parrucchiere Made in china. Qui l’aria è apparentemente più distesa. Lo si nota dall’assenza dei carretti che trasportano merci 24h su 24h e dalla moltitudine di coppie miste che, involontariamente, contribuiscono ad accorciare le distanze tra le culture. Thai con bianchi, bianchi con cinesi, cinesi con africani/e, come fosse la cosa più normale al mondo. Ovviamente questa è solo la realtà più visibile, quello che si può notare, senza scavare più in profondità. La caratteristica di questa via sono la case basse, non superano i 7 piani, fatta eccezione per alcuni grandi « grattacieli » bianchi, tutti uguali, costituiti da una quarantina di piani. Se li si percorre con lo sguardo si può arrivare alla fine della via ma io, invece, non mi dirigo verso la fine bensì decido di prendere una via laterale per entrare un po’ più dentro alla vita di quartiere. Prendo Rue Simone weil, niente di speciale se non quattro ragazzotti di periferia in motorino e altrettanti edifici equiparabili alla loro misera arroganza. Quello che mi colpisce, invece, è un piccolo giardino: jardin baudricourt. E’ un giardino pensato e realizzato in stile asiatico. Vi trovo un piccolo fiumiciattolo, fiori coloratissimi, rosa e viola e al centro della piazza trovano spazio due pietre, poste una sopra l’altra, come a raffigurare un uomo. Supero la costruzione a forma di capanna, che solo dopo vari tentativi riesco a capire che sono delle toilette pubbliche, e scovo una pietra commemorativa che colpisce la mia attenzione, mi avvicino e leggo: à la mémoire des travailleurs et combattants chinois « morts pour la France » pendant la Grande Guerre. 1914-1918. Questa scritta, posta in basso, è affiancata da una medesima ma in lingua cinese.

La targa scritta in francese mi lascia un po’ perplesso in quanto non capisca il bisogno di virgolettare la frase morti per la Francia, quando quest’ultima avrebbe avuto lo stesso senso senza quella rémarque. Nel frattempo tre bambine cinesi continuano a fissarmi facendo il giro, mano nella mano, della capanna. Mi guardano, sorridono e via, scompaiono in un attimo. Parlottano tra loro in un misto tra cinese e francese o forse sono io che non riesco bene a decifrare quello che dicono vista la loro tenera eta’. Lascio questa piccola oasi di tranquillità e mi dirigo in un’altra via traversa. Qui, già a partire dalla chiesa di Notre Dame de Chine, evidente rifermento alla più ben nota chiesa, niente fa pensare di essere a Parigi, anzi, senza esagerare, niente fa ricordare di toccare suolo europeo. Le scritte poste fuori gli edifici quali: insegne di dottori, dentisti ed avvocati, sono tutte scritte rigorosamente in cinese, lasciando un piccolo spazio per la lingua francese. Perfino la multinazionale del fastfood non può resistere e si adegua scrivendo l’insegna con gli ideogrammi. Fuori Mc una mendicante cerca di convincermi, con il suo forte accento cinese, di darle un euro per potersi permettere un menù. Cedo, un po’ intenerito e un po’ incuriosito se davvero utilizzerà l’euro per comprarsi da mangiare. Mi apposto appena fuori l’entrata ed aspetto che entri. La dame si volta per assicurarsi che io mi sia allontanato, e, delusa di vedermi lì, mi fa cenno con il capo come a dirmi: sto per entrare. Un secondo, mi volto per non fissarla, e scompare tra gli alberi e le macchina posteggiate.

Prima di riprendere la metro 7, che mi porterà direttamente alla stazione di stalingrade, un piccolo gruppo di tre donne, una bianca, una di colore e l’altra asiatica, tiene in mano un giornale intitolato: « svegliatevi! » L’immagine di una famiglia seduta a tavola fa da sfondo, tutto tradotto anche in cinese ovviamente. Una piccola descrizione di quello che ho percepito passando un pomeriggio au quartier Chinois de Paris. Sicuramente ci ritornerò accompagnato da qualcuno che mi spiegherà più a fondo la storia di questo quartiere.

Zài zǎoqí

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